
Essere e virus
Foto di copertina: Priscilla Du Preez (via Unsplash).
Quando Heidegger pubblicò Essere e Tempo, nel 1927, c’era stata la Guerra e poi la Spagnola, ma i mezzi di comunicazione erano la posta, il telegrafo, il telefono (che aveva già giocato un ruolo importante nella Recherche di Proust), la radio (che ne giocherà uno importantissimo e tragico nella campagna elettorale di Hitler). E soprattutto erano concepiti anzitutto come mezzi di comunicazione, non di registrazione, e come strumenti accessori e sussidiari di una presenza che era anzitutto contatto fisico. Oggi abbiamo un altro virus, che il presidente Macron ha paragonato a un’altra guerra, e soprattutto abbiamo degli altri media. Cambia qualcosa nella prospettiva di Heidegger, dovremmo aggiornarla ai media e ai virus oggi disponibili, con una operazione estenuante perché è facile prevedere che ce ne saranno di nuovi? Oppure, ed è l’ipotesi per cui personalmente propendo, proprio il nuovo virus e i nuovi media rendono più chiare – al limite, e non è un'offesa, più semplici ed evidenti – le idee di Heidegger? In effetti l'isolamento, il diradamento della presenza imposto dal virus, e insieme il fatto che la mediazione tecnica si frapponga, con fruscii, problemi di connessione, estenuanti sfide alla nostra incompetenza, in tutta la massa di video-chiamate e videoconferenze, tutte rigorosamente registrate, non sono forse l’esperienza, accessibile a tutti della temporalità originaria e dell’autenticità che Heidegger riserva ai pochi, ai rari, ai filosofi, e forse a quell'unico filosofo che è lui stesso?
Dice il Filosofo: l’esistenza è anzitutto tempo, tra la nascita e la morte, ed è questo tempo limitato a far sì che abbiamo progetti, desideri, ricordi e forse rimorsi, cioè tutto l’apparato che manca non solo a un girarrosto o a un orologio, ma (lui non poteva immaginarlo ma ora lo sappiamo) anche al più intelligente dei computer, che, diversamente dal più stupido degli animali, non può morire, dunque non subisce le pressioni del metabolismo e i mille volti della paura. Nella sua rappresentazione tradizionale, quella che l’umanità ha esperito in innumerevoli generazioni, l’esistenza si esercita anzitutto in presenza, nel confronto faccia a faccia. Ma dietro e prima di questo, secondo il Filosofo, bisogna essere consapevoli che la presenza spaziale è il riflesso di una collocazione anzitutto temporale, l’Esserci, che non è solo essere situati in un luogo (a casa, in treno, in trincea) ma anche da una serie di ricordi e di aspettative che hanno a che fare con il tempo, di cui l’istante, il qui-ed-ora, non è che la punta emersa. Quello che si mostra come presenza spaziale e come presente temporale è, per così dire, il fotogramma di una pellicola in movimento (e dunque, per chi sa leggere tra le righe: la pretesa di Husserl di giungere alla presenza piena, alle cose stesse, è una pia illusione). Ho detto “fotogramma”, con un riferimento a un apparato tecnico caro all'altro grande avversario filosofico tra le righe di Essere e tempo, Bergson, il cinema, ma anche perché era il modo più semplice che ho trovato per chiarire qualcosa che, in apparenza, non ha nulla a che fare con la tecnica, ed è filosofia allo stato puro, ammesso e non concesso che qualcosa del genere, il Puro Pensiero, esista.
Tuttavia, Heidegger è tutt'altro che indifferente al ruolo della tecnica, si riferisce in genere a strumenti non molto sofisticati, per esempio il martello, ma ha un passaggio, nel § 69 di Essere e tempo, che forse anticipa L’origine della geometria di Husserl, ma sicuramente contiene in nuce tutta la Grammatologia di Deridda: "anche la più 'astratta' elaborazione di problemi o determinazione di risultati richiede ad esempio l’impiego di mezzi per scrivere”. Tranne che, con un presupposto alla Rousseau che condivide con tanti altri filosofi, Heidegger vede nella tecnica una forma di sussidio, inquinante e inautentico, di una natura in generale, e di una natura umana in particolare, indipendente dalla tecnica. Di qui affermazioni curiose e contraddittorie: da una parte, la mano e la morte sono prerogative degli umani, precluse agli animali; dall'altra la scrittura a mano è più autentica della scrittura a macchina. Così pure, la temporalità originaria che ci costituisce è la capacità di avvolgere lo spazio nel tempo attraverso un’opera di rimemorazione e di anticipazione, che rendono significativo lo spazio e l'ambiente. È solo nel quadro di un progetto autentico, e di una temporalità originaria ispirata a questo progetto, che abbiamo il vero tempo e il vero spazio, che discendono dall’alto, come una Pentecoste, invece che emergere dal mondo.
Ma siamo sicuri che questo originario non sia, a sua volta, niente più che un effetto, una mediazione tecnica? È ciò che suggeriva nel 1968, in un saggio memorabile ma anche lui passabilmente oscuro, Derrida. Si tratta di “Ousìa e grammè. Nota su una nota di Essere e tempo”, che si riferisce a una lunghissima nota al § 82 in cui Heidegger dimostra che Aristotele, Hegel e Bergson non hanno capito niente, e lui invece ha capito tutto. Mentre, mitemente, e cordialmente, Derrida sostiene che no, non è proprio così, che stanno parlando della stessa cosa ed è inutile farla tanto lunga (la nota). È evidente che il tempo non può che spazializzarsi, proprio come la voce, che è tempo, diviene spazio nel momento in cui è scritta (ed è l’esperienza che, per l’appunto, sta al centro del nostro stare al mondo nell’età del Web). Non c’è essere senza tempo significa dunque che non c'è essere senza spazio e che spazio e tempo sono due funzioni che derivano da qualcosa di più originario, la possibilità di registrare, che rende possibile tanto la percezione dell’istante quanto il ricordo, l’attesa, e l’esperienza dello spazio, che a sua volta è permanenza, cioè registrazione. Il fatto che per esprimere tutto questo venga naturale far riferimento ad apparati tecnici (a partire dalla classica rappresentazione dell’anima come una tabula rasa, come un supporto scrittorio, da Platone a Freud) suggerisce che la tecnica, invece che deformare l’esperienza, ne riveli, magari caricaturalmente, le caratteristiche essenziali.
Derrida ipotizzava che la distinzione tra originario e derivato, autentico e inautentico non aveva senso: oggi ne abbiamo la prova. In questo periodo le nostre comunicazioni sono in larghissima parte tecnicamente mediate. Sono meno autentiche? Ovvio che no. Ci manca la fisicità dei rapporti, questo è chiaro, ma questa fisicità è forse sinonimo di “autenticità”? Si può essere autentici in una chiamata skype e inautentici in un faccia a faccia, posto che “autentico” voglia designare qualcosa di diverso da uno stato d’animo che può benissimo essere ingannevole, e senza dimenticare che, come diceva Gide, nulla è più premeditato della sincerità. E soprattutto, quanto al tempo. Siamo tutti avvolti in una bolla spaziotemporale, in una potenziale sincronicità, che ci insegna qualcosa che non avevamo considerato a sufficienza sinora, e cioè che l’essere non è né lo spazio né il tempo, ma la condizione di possibilità di entrambi, la registrazione, senza cui non avremmo né il tempo né lo spazio.
L’idea di fondo è questa: la registrazione, di cui il Web è la manifestazione più esplicita e capillare, è un fenomeno intrinsecamente spaziotemporale. Senza la registrazione, vivremmo in un eterno presente e non avremmo una anticipazione del futuro. Ma, al tempo stesso, senza registrazione non vivremmo in nessun luogo, perché l’essere situati spazialmente è ciò che ci permette di dire che ora siamo qui, prima eravamo là ecc. (per capire questo punto, si pensi allo sgomento che ci prende quando non sappiamo dove siamo, e alle patologie che, facendo perdere la memoria, fanno smarrire non solo la cognizione del tempo, ma anche quella dello spazio). Prima del Web e prima del virus tutto questo era mascherato dal fatto che la registrazione era un fenomeno che aveva luogo per lo più in noi, e appariva ovvio e presupposto, mentre il Web – e la sua massificazione attraverso il virus - lo ha portato in evidenza, generando difficoltà e paradossi (per esempio, qual è la vera spazialità di un evento? Dove si svolge davvero un consiglio di dipartimento su Skype? O ancora, qual è la singolarità di un evento che può iterarsi indefinitivamente essendo registrato?). Ma tutto era già lì, e pareva astruso, mentre ora è chiaro come il sole, e fa parte della nostra vita, più autentica che mai anche se mediata, come giustamente asseriva Derrida e come a torto negava Heidegger.
Testo di Maurizio Ferraris, parte della ricerca realizzata dal team di Open Design School per la redazione del manuale ''So far, so close. Pratiche di vicinanza infra-pandemiche'', realizzato in occasione del Festival ''So far, so close. Esercizi di vicinanza'' della Fondazione Matera-Basilicata 2019.